LA BANALITÀ DEL MALE: se giustifichi il carnefice, forse il carnefice sei tu

15.05.2022

KRISTINA KOHUTYCH. Il problema è il comportamento criminale o la condotta della vittima?

La grande maestra del passato Hannah Arendt, in uno dei suoi saggi più famosi, "La banalità del male", ci pone di fronte a un'incredibile verità: i temibili gerarchi nazisti, colpevoli di crimini indicibili, non erano altro che persone normali immerse nei meccanismi della burocrazia e dedite all'adempimento del proprio dovere. Non vi era nulla di straordinariamente malvagio in loro; erano semplicemente uomini che avevano smesso di pensare, diventando degli automi del terribile sistema di sterminio.

Nel periodo storico che stiamo vivendo il passato, più intensamente che mai, torna a bussare alla nostra porta costringendoci a voltarci, a guardarci dentro e fuori e a chiederci come evitare di ricadere negli errori di un tempo. L'irruzione di una guerra nel cuore dell'Europa ha avuto un forte impatto emotivo su tutti noi. Per me, di origine ucraina, tale evento ha cambiato radicalmente la percezione che avevo del mondo e delle persone. Paradossalmente, non sono state solamente le crude immagini di stermini e distruzioni a ferirmi. Sono state anche la goliardia, il diniego di alcuni e l'indifferenza di molti a sconcertarmi.

Non mi permetto di parlare di politica e non intendo neanche dire quanto la guerra sia orribile e ingiusta o quanto siano immorali le bombe o le mitragliatrici. Non aggiungerei niente di nuovo a quello che tutti sappiamo già. Ciò su cui vorrei porre attenzione è la "banalità del male" che può celarsi dietro all'indifferenza o al tentativo di normalizzare, ancora una volta, le atrocità che vengono commesse davanti ai nostri occhi. È il pericolo che corriamo tutti, come società e come esseri umani, di cercare delle giustificazioni per le azioni del carnefice.

Ma quale meccanismo psicologico si nasconde dietro tale dinamica? In generale, il cosiddetto fenomeno del victim blaming, - o colpevolizzazione della vittima-, è una trappola in cui è molto facile cadere. Si tratta di un meccanismo di difesa che il cervello umano adopera per proteggersi dall'imprevedibilità del mondo circostante. Quando sentiamo parlare di qualche fatto terribile accaduto a qualcuno il nostro cervello cerca in automatico delle spiegazioni a una tale ingiustizia. E spesso finisce per imputare "la colpa" dell'evento a qualche comportamento o caratteristica che la vittima aveva (e che noi non abbiamo). Pertanto creiamo l'illusione di poter evitare di soccombere a tragedie del genere. Quante volte abbiamo sentito pronunciare le fatidiche parole "se l'è cercata" rivolte alle vittime di molestia o di una violenza? Ma una donna non viene molestata perché si veste in modo provocante o perché cammina da sola in una strada buia; non ha il dovere di evitarlo e deve avere la libertà di poterlo fare senza sentirsi in pericolo. Ciò che deve cambiare è il comportamento criminale, non la condotta della vittima.

Hannah Arendt diceva che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, in quanto si nutre della mancanza del pensiero, del vuoto delle idee. Il pericolo che corriamo di fronte a un evento che ci sconvolge, quindi, è che la paura possa offuscare la nostra capacità di raziocinio. Allora, forse, prima di esprimerci su un determinato argomento, dovremmo chiedere quale sentimento muove la nostra affermazione. Forse, invece di pensare "a me non succederà mai", dovremmo iniziare a pensare "facciamo in modo che non succeda a nessuno".

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